Il nome per esteso è «Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (in inglese Transatlantic Trade and Investment Partnership», in sigla TTIP.
Cos’è? È un accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America. Detto così è un argomento che farebbe addormentare anche un Nobel in economia, ma per chi lavora nel comparto nazionale dell’agroalimentare è una patata di quelle davvero bollenti.
Basta digitare la sigla su Google per ottenere 479.000 risultati, ma ben pochi di questi spiegano davvero di cosa si tratti, quasi tutti infatti o ne paventano i rischi o ne glorificano le opportunità.
Ma andiamo con ordine, il sito web de l’UE lo descrive così: «il TTIP ha l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti. Oltre a ridurre le tariffe in tutti i settori, l’Unione Europea e gli Stati Uniti vogliono affrontare il problema delle barriere doganali –come le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e le procedure di omologazione. Spesso questi rappresentano un aggravio inutile in termini di tempo e denaro per le società che vogliono vendere i loro prodotti su entrambi i mercati. Per esempio, quando un’automobile è omologata in Europa, ha bisogno di un’ulteriore procedura di approvazione negli Stati Uniti, nonostante le norme sulla sicurezza siano simili».
Bene, ma a noi del settore interessano poco le automobili ma molto i prodotti agroalimentari, e qui le opinioni si spaccano in due.
In molti infatti prevedono che con l’entrata in vigore di questo accordo si concretizzi il rischio dell’ingresso di merci e alimenti di cattiva qualità prodotti dalle multinazionali americane, tipico l’esempio della carne di animali allevati con ormoni (effettivamente ammessi in Usa e vietati in Ue) o dei formaggi Italian sounding come l’«Asiago Cheese» prodotto in Minnesota o il famigerato «Parmesan». Sempre secondo la visione più pessimistica le leggi nazionali e le comunità locali non potranno opporsi in quanto le leggi e i regolamenti devono sottostare al trattato. Addirittura si vocifera che anche le sentenze dei giudici europei non potranno opporsi ai prodotti statunitensi perché il TTIP obbliga i cittadini europei, singoli e in associazione, a rivolgessi, non al giudice nazionale, ma a un tribunale di natura privata per tentare un arbitrato lottando a proprie spese contro gli staff legali delle multinazionali.
I sostenitori dell’accordo invece assicurano che, poiché le relazioni commerciali fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea siano già le più rilevanti al mondo, ed ogni giorno vengano scambiati beni e servizi pari a 2 miliardi di euro, ogni barriera commerciale che viene eliminata potrebbe creare ulteriori e significativi vantaggi economici. Gli economisti incaricati di valutare i benefici di questo trattato indicano che sarà proprio l’agricoltura a trarre i vantaggi maggiori da una positiva conclusione dei negoziati, a causa dell’entità delle attuali barriere non tariffarie, tra cui le restrizioni sanitarie, alle esportazioni agroalimentari italiane. La somma delle barriere, tariffarie e non, nel settore viene stimata intorno al 40% del valore delle merci, allo stesso livello della meccanica e poco meno rispetto al sistema moda, imponendo così un onere pesantissimo e difficilmente sostenibile per gli esportatori.
Insomma, il 10% dei benefici stimati alla conclusione dei negoziati vede protagonisti formaggi, carne, vino, olio e tante altre eccellenze del nostro agroalimentare.
Inoltre, secondo uno studio commissionato dal Dipartimento politiche della coesione del Parlamento europeo («Risks and opportunities for the eu agri-food sector in a possible eu-us trade agreement »), tra le opportunità dell’accordo ci sono l’eliminazione di alcune barriere non tariffarie che frenano l’export europeo di vini, formaggi, carni, ortofrutta e olio di oliva. Tra i rischi di un eventuale accordo ci sono semmai le condizioni di partenza delle differenti agricolture, con la struttura di quella americana che per dimensioni aziendali e costi di produzione potrebbe surclassare, in condizioni di mercato aperto e senza protezioni, la produzione di materie prime europee. Altri negoziati commerciali però utilizzano tetti e soglie, ovvero quote, che proteggono alcuni settori, troppo esposti, dell’agricoltura europea.
Del fatto se ne è occupato anche la trasmissione Report (link http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-9ed45d77-878a-4e7b-a531-df8fa39695bc.html) sottolineando come in effetti le leggi statunitensi sulla commercializzazione dei cibi siano molto più permissive di quelle europee. Del resto in UE vige il principio di precauzione (link: http://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_precauzione ), mentre negli Usa possono essere vietati solo i prodotti la cui nocività è scientificamente riconosciuta.
C’è anche chi insiste sul fatto che tutta la questione sia attualmente secretata e se ne discuta tra pochi eletti, niente di più falso, a questo link:http://register.consilium.europa.eu/content/out?lang=EN&DOC_LANCD=IT&typ=ENTRY&i=ADV&DOC_ID=ST-11103-2013-DCL-1 è possibile consultare il trattato in italiano, vi avvisiamo subito che non è una lettura leggera, ma parlare di documenti Top secret è sbagliato.
Sono molti i riferimenti nel testo alla «promozione di alti livelli» di protezione dell’ambiente, dei lavoratori e dei consumatori «coerenti con il diritto comunitario e la legislazione degli Stati membri». «Le parti – si legge – non incoraggeranno scambi commerciali o investimenti che riducano gli standard nazionali in termini di ambiente, lavoro, occupazione, salute e sicurezza». Nel documento c’è anche la disposizione a negoziare «una tutela rinforzata per i prodotti a indicazione geografica», ovvero le dop e le igp.
Almeno sulla carta le rassicurazioni sono molte, vedremo l’evolversi degli eventi nei prossimi mesi.
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