Ogni secondo un’area di terra grande come un campo da calcio viene venduta da un paese povero a un investitore privato(1).
Il «land grabbing» (accaparramento delle terre), la vendita di enormi superfici di potenziale superficie agricola a terzi, aziende o governi di altri paesi – quasi sempre senza il consenso delle comunità che le abitano o che le utilizzano – è un problema che esiste da molti anni, ma dopo il 2008 è cresciuto enormemente, alcune stime parlano del 1.000% in soli due anni.
Da anni la domanda di suolo coltivabile vola: gli investitori cercano terreni dove coltivare le tre «F», feed, food e fuel (mangimi, cibo e carburanti) e sono soprattutto i numeri a fare davvero impressione: un recente rapporto del californiano Oakland Institute sostiene che tra il 2000 e il 2011 un’area che corrisponde a otto volte quella del territorio britannico è stata comprata o presa in locazione in aree del mondo in fase di sviluppo. Per inciso, la Gran Bretagna copre una superficie di circa 230.000 km² (23 milioni di ettari moltiplicato 8 = 184 milioni di ettari). Altre stime(2) parlano addirittura di 203
milioni di ettari acquistati o affittati negli ultimi 10 anni: più o meno le dimensioni dell’Europa nord-occidentale. Le nazioni vittime del fenomeno sono principalmente Africa, Asia, e America Latina.
Terra in vendita o svendita?
I casi saliti all’onore della cronaca sono innumerevoli, ne citiamo solo alcuni.
Nel 2009 in Uganda la compagnia inglese New Forest Company ha acquistato la terra dal governo ugandese ed ha sgombrato la zona con la forza. La New Forest Company ha smentito qualsiasi tipo di coinvolgimento, ma migliaia di testimonianze raccontano il contrario. L’impresa Guinée Énergie S.A, filiale del gruppo italiano Nuove Iniziative Industriali ha acquisito vaste aree in Guinea per coltivare jatropha da biomassa poi
trasformarla in biocarburante da esportare nell’Unione europea. Alcune indiscrezioni sostengono che la superficie coinvolta ammonti a più di 710.000 ettari (l’area totale dell’Uganda, escluse solo le acque interne, è di 20 milioni di ettari).
Esistono anche casi di «auto land grabbing»: il presidente della Guyana, Donald Ramotar, ha più volte proposto agli imprenditori e ai governi dei Caraibi di investire nei territori agricoli della Guyana per raggiungere la sicurezza alimentare. In Centro America c’è una grossa espansione delle coltivazioni per la produzione di olio di palma, e secondo le agenzie internazionali buona parte degli espropri è stata fatta ai danni dei coltivatori locali. Nel 2008-2009, in Madagascar, nella Regione di Ihorombe, un’azienda italiana, Tozzi Green, braccio attivo nel campo delle rinnovabili di Tozzi Holding Group, aveva in progetto di realizzare piantagioni di Jatropha per produrre biocarburanti sfruttando complessivamente 100.000 ha di terreno. Il primo accordo di affitto di 6.500 ettari, siglato con il governo centrale malgascio per 30 anni, sarebbe di 10 euro/ettaro all’anno.
Una bolla speculativa già scoppiata
Al di là di ragionamenti etici o morali e limitandoci a considerare che da sempre l’economia mondiale si basa su domanda e offerta viene comunque da chiedersi quali effetti avrà in futuro questa corsa alla terra: il report del già citato Istituto Oakland sostiene che il land grabbing ha creato una vera e propria bolla finanziaria e speculativa che, a quanto pare, sarebbe anche già scoppiata. Stando infatti a quanto affermato dal relatore speciale Onu per il diritto al cibo, Olivier De Schutter, in una intervista ad Italia Oggi, molti investimenti stranieri realizzati a questo scopo sono falliti e hanno causato danni di immagine a chi li praticava, in pratica la grande ondata di accaparramento di terre per motivi alimentari sembra aver perso forza.
E la Cina si compra direttamente le multinazionali
Questo non significa che il fenomeno dell’accaparramento delle terre sia finito, diciamo che è in evoluzione.
La superpotenza maggiormente additata come «land grabber» è la Cina, difficile (se non impossibile) quantificare realmente quanto terreno agricolo questa nazione abbia comprato in Africa, Sudamerica e Australia, di sicuro la Cina è un gigante sempre più affamato.
Con i suoi quali 10 milioni di km², la Cina è il terzo Paese più grande al mondo (dopo Russia e Canada), ma solo il 15% del suo territorio può essere coltivato. I campi cinesi non bastano per dar da mangiare a tutti: la popolazione cinese è attualmente a quota 1,34 miliardi di persone (quasi il 20% della popolazione mondiale) e avrebbe voglia di proteine animali oltre che di riso.
Ma secondo gli esperti del trading internazionale la Cina ha già fatto un passo avanti, tanto che non si parla più di corsa alla terra, ma di corsa alle «multinazionali». Un recente articolo pubblicato sul Sole 24 ore spiega infatti come il Governo di Pechino, tramite il gruppo statale Cofco (China national cereals, oils and foodstuffs corporation), un gigante nel trading dei cereali e delle proteoleaginose, si sia appena comprato il 51% del ramo agricolo della multinazionale Noble Group per 1,5 miliardi di dollari e recentemente il 51% del trader di granaglie olandese Nidera, aprendo il suo mercato a regioni come America Latina e Russia. Cofco è stata incaricata degli approvvigionamenti di derrate alimentari per conto del Governo cinese con una strategia di investimenti, entro il 2015, di almeno 10 miliardi di dollari in acquisizioni all’estero. Più che «land» possiamo chiamarlo «financial grabbing».
(1) Oxfam Italia – http://www.oxfamitalia.org/
(2) International Land Coalition – www.landcoalition.org